Fra le tante forme di autosabotaggio che riusciamo a inventare, una delle più insidiose e diffuse che come coach mi capita di dover aiutare a contrastare è senza dubbio quella legata al merito.
Non tanto l’idea meritocratica che ciascuno debba essere valutato in relazione a quanto effettivamente può dare in termini di competenza, conoscenza e abilità, ma proprio il tarlo annidato nelle nostre testoline giudaico-cristiane che dice “Ma meriterò davvero di essere amato/apprezzato/compensato? Meriterà davvero un miserabile millantatore quale indubbiamente sono di ottenere qualche successo? Presto, commettiamo un errore, arriviamo in ritardo agli appuntamenti, chiudiamo la gola davanti a un discorso pubblico: ristabiliamo la giustizia!”.
Tutti noi conosciamo e disprezziamo le nostre umane miserie e millanterie meglio di chiunque altro, e le condanniamo severamente anche quando sono assolutamente veniali, ma non basta: anche i talenti “immeritati”, la bellezza, l’intelligenza, che dovrebbero costituire altrettanti motivi di orgoglio, sono spesso bersagli per la disapprovazione del nostro inflessibile giudice interno.
Il merito, il “cosa ho fatto per meritarlo?”, il “me lo sono davvero guadagnato?”, sono bestiacce terribili da sfidare e scalzare, rintanate all’interno di profondità oggettivamente difficili da illuminare con la semplice consapevolezza del fatto che si tratti di sabotaggi che pratichiamo a noi stessi, di ostacoli che siamo noi a mettere sul nostro percorso.
Quando sono abbastanza grandi e feroci, riescono a portare anche i più intelligenti e capaci (anzi: soprattutto i più intelligenti e capaci) alla costante svalutazione di sé stessi e a svuotare di significato ciò che sono riusciti a ottenere, inserendo la variante “riesci a ingannare tutti, ma davanti a te stesso sai di non valere nulla”, fino alla terribile catena della depressione, in cui si cerca solo di dimostrare al mondo, oltre che a sé stessi di non valere nulla.
Ma questa diventa materia per psicologi e psichiatri: come coach dobbiamo lavorare sul campo del cosciente e del cognitivo, per permettere ai nostri assistiti di dispiegare per intero le potenzialità dei loro talenti, dunque combattiamo il tarlo del “te lo devi guadagnare o non vale” con le nostre armi, soprattutto con la maieutica.
La risposta interna “certo che me lo merito!” è un’arma spuntata, di cui il tarlo può sghignazzare a piacere.
Già le domande “perché, cosa ti meriti davvero? Un incidente, un cancro, un infarto sarebbero meritati? Nascere qui e non in un paese povero e in guerra lo hai meritato?” vanno più dritte al cuore della consapevolezza che la domanda “L’ho guadagnato?” è un macigno di cartapesta.
Perché nessuno merita niente: quello che otteniamo ci capita, possiamo renderlo possibile, favorirlo impegnandoci e preparandoci, ma non lo determiniamo.
Le onde non le facciamo noi: al massimo possiamo scegliere le traiettorie migliori per surfarci sopra.
Ed è quello che dobbiamo imparare a fare: al lavoro.
GS